Dal 21 al 23 ottobre 2016 presso l’Aurum a Pescara, sala Francesco Paolo Tosti, piano terra, si svolgeranno i dibattiti sui temi portanti di questa nona edizione del Festival mediterraneo della laicità organizzata come sempre dall’Associazione Itinerari Laici che si avvale anche quest’anno della preziosa collaborazione scientifica del LabOnt, centro universitario di ricerca filosofica dell’università di Torino presieduto da Maurizio Ferraris e il sostegno dell’Otto per Mille della Tavola Valdese che ha scelto il Festival tra i progetti culturali nazionali da finanziare nel 2016.
Il tema dell’edizione 2016 è “Non aver paura della paura”.
“Jonas ha scritto: Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, ovvero della necessità di sviluppare un’“euristica della paura”. Nelle società tecnologicamente avanzate, le norme centrali dell’etica tradizionale (giustizia, misericordia, onestà, amore del prossimo), non sono più sufficienti ed adeguate a indirizzare l’agire degli uomini nella odierna civiltà tecnologica; “Nessun’etica del passato doveva tener conto della condizione globale della vita umana e del futuro lontano, per non parlare dell’esistenza della specie”. La tecnologia ha cominciato a incidere a livello planetario sugli equilibri naturali con conseguenze pericolose per la sopravvivenza della specie umana. E’ necessario che l’etica si occupi della preservazione della natura e della vita sulla terra quale presupposto ineludibile della sopravvivenza dell’umanità minacciata, interessandosi della sorte sia delle future generazioni, ma anche dell’intera biosfera: “Viviamo in una situazione apocalittica, ovvero se lasciamo che le cose seguano il loro corso attuale nell’imminenza di una catastrofe universale”. Gli individui e i governi spesso non sono consapevoli, da veri maestri della rimozione, non riescono più a percepire i pericoli e ad affrontare i problemi. Assistiamo all’anestetizzazione cui è sottoposta la nostra capacità di analisi critica ed il fatto che molti fenomeni problematici si sottraggono alla nostra diretta osservazione. E’ indispensabile ricorrere a ogni forma di sapere scientifico perché la gente si sensibilizzi alle conseguenze delle nostre azioni presenti (una terra trasformata in un deserto, contaminata dalla radioattività e sotto un enorme buco dell’ozono), è però altresì necessario ricorre a un’“euristica della paura”, che sappia tratteggiare un’immagine degli spaventosi sconvolgimenti cui è destinata ad andare incontro la terra negli anni e nei secoli futuri. Infatti gli uomini riescono a comprendere veramente la posta in gioco solo allorché prendono coscienza del fatto che è effettivamente in gioco.
Il primo dovere propedeutico di un’etica per la civiltà tecnologica deve essere la produzione di una rappresentazione capace di anticipare il malum supremo nel pensiero. Il secondo dovere propedeutico dovrà, però, essere quello di mobilitare un sentimento adeguato all’immagine prodotta: “Il paradosso della nostra situazione consiste nella necessità di recuperare dall’orrore il rispetto perduto, dalla previsione del negativo il positivo”. E’ certo difficile che il destino (soltanto immaginato) delle generazioni future o del pianeta-terra, che non riguarda né me né alcun’altra persona che sia legata a me dal vincolo dell’amore o della convivenza, riesca a esercitare di per sé un influsso dirompente sul mio animo. E tuttavia bisogna fare in modo da farglielo esercitare. Diversamente dallo gnostico antico – che provava angoscia alla vista di un universo popolato da presenze demoniache e dall’esistenzialista novecentesco – che era assalito dall’angoscia e dall’inquietudine di fronte ad un universo muto e indifferente, l’uomo della società tecnologica avanzata dovrà imparare a provare un profondo ma salutare senso di paura, angoscia, terrore al pensiero dei possibili futuri sconvolgimenti cui andranno incontro le generazioni future. E a questo deve contribuire un’etica del futuro: finché il pericolo è sconosciuto, non si sa che cosa ci sia da salvaguardare e perché. Il saperlo scaturisce, contro ogni logica e metodo, dalla percezione di ciò che occorre evitare, laddove è in gioco la sopravvivenza dell’intera biosfera, ogni forma di minimizzazione dei problemi è esecrabile e colpevole. Anzi, a coloro cui la paura “il timore e tremore” non sembra uno stato d’animo abbastanza “decoroso” per la condizione umana, non dovremmo mai affidare il nostro destino. Quando per paura – che per natura fa parte della responsabilità – non s’intende tuttavia la paura che dissuade dall’azione, ma quella che esorta a compierla, che è poi la paura che si prova per ciò di cui abbiamo la responsabilità. Hobbes “faceva della paura il primum movens della ragione nelle faccende del bene comune”: “In una situazione quale ci sembra essere l’attuale, lo sforzo consapevole nell’alimentare una paura altruistica in cui, insieme al male, appaia chiaramente anche il bene – la paura diventerà il primo dovere preliminare di un’etica della responsabilità storica”.
La situazione di grave pericolo in cui vivono, negata o elusa, influisce negativamente sulla facoltà di percepire la realtà: il pericolo ha superato per così dire la soglia di percezione. La cecità nei confronti dell’apocalisse è quindi espressione di un’incapacità oggettiva di fondo di affrontare cognitivamente ed emozionalmente ciò che non è percepibile e definibile, ovvero il mostruoso. Questo “gap prometeico” (o “dislivello prometeico”), che segna il rapporto dell’uomo con le cose da lui prodotte, formando degli analfabeti emozionali, può avere tuttavia delle conseguenze devastanti per la sopravvivenza della vita sulla terra. Il mostruoso (che è troppo grande per noi) non ci lascia infatti soltanto freddi, ma non riesce minimamente a toccarci e a scuoterci. E una minor capacità percettiva dei pericoli porta con sé una minor capacità di provare angoscia di fronte ad essi. Per questo il nostro tempo può essere definito come “l’età dell’incapacità di provare angoscia”.
Tratto da Angoscia di Roberto Garaventa (2006, 152 p. Ibis editore)